Sedotta e abbandonata

Roberto Beccantini11 dicembre 2014

Se giochi in casa, e la casa si chiama stadio Olimpico di Roma; se ti basta lo 0-0; se affronti un avversario che ti subissa di fatturato (Garcia dixit) ma, nella circostanza, ti rende titolari del calibro di Aguero, Yaya Touré, Kompany, David Silva e Jovetic (detto a mia moglie all’inizio: Pellegrini è pazzo a lasciar fuori Jovetic. Risposta: e se il pazzo fossi tu?); se, se, se tutto questo e perdi 2-0, non ci sono né occasioni (di Holebas, di Ljajic) né centimetri – quelli che hanno diviso il palo-dentro di Nasri dal palo-fuori di Manolas – che tengano.

La Roma abbandona la Juventus e scivola, così, in Europa League. Resta il rammarico, sì, per una qualificazione sfiorata e buttata, cosa che però avrebbe potuto dire lo stesso City se. Al sorteggio di fine agosto, parlando delle italiane, scrissi su «il Fatto»: spareggio tra Juventus e Olympiacos; Roma costretta a rovesciare destino e pronostico. Non mi sento un genio, per questo. Anzi.

E’ finita, la Roma, quando è finito Gervinho, che riassume il suo distintivo tattico. Un po’ perché non ne aveva più, un po’ perché Nainggolan faceva troppo, Pjanic troppo poco e Totti niente, molto perché ormai i rivali hanno mangiato la foglia: lo aspettano al varco, lo raddoppiano, lo disarmano.

La leggerezza della Magica ha permesso a Pellegrini di trasformare la partita in una gruccia fino a quando Nasri e Zabaleta (quanto mi piace) non vi hanno appeso il risultato. Brillanti per un quarto d’ora, i romanisti sono poi calati e poi crollati. Non può più permettersi i fari spenti, Garcia, e nemmeno la difesa che ne aveva cementato l’ascesa (Maicon, Castan, Benatia, Balzaretti: sventrata, letteralmente). Di sicuro, il 7-1 del Bayern ha riportato il villaggio al centro della chiesa. Rimangono rimpianti e rimorsi, compresi i 38 anni di Totti, da Manchester al Manchester, forse una nuvola di polvere, forse qualcosa di più.

Mi sono commosso

Roberto Beccantini9 dicembre 2014

Immagino che dopo l’ora di gioco persino i gentili Cartesio e Riccardo Ric avranno avuto nostalgia di qualche centimetro da tirarmi addosso. Ci saremmo, se non altro, agitati un po’. Lo 0-0 con l’Atletico consegna alla Juventus il secondo posto del girone e gli ottavi di finale. Chapeau.

Palle-gol vere? Una sola, in avvio: botta di Koke, gran parata di Buffon. Gli spacciatori ne citeranno altre (i tiri di Vidal e Pogba, per esempio): non dategli retta. Non ricordo, fra andata e ritorno, così poche conclusioni. Lo 0-0 venne sfiorato, a onor del vero (e della Juventus), anche al Calderon. Fu Arda Turan, esterno che adoro, a espellerlo dal tabellino.

I maniaci si butteranno sul possesso palla, favorevole ancora a Madama. Simeone è un signor italianista. Circonda gli avversari, piazza Mandzukic su Pirlo e vive di contropiede (quando gli garba). Se no, aspetta. Ad Allegri è venuto a mancare Marchisio: il brillante Marchisio di questo scorcio. Altro tipo di giocatore, Pereyra. Tutti preziosi, nella Juventus, ma nessuno risolutivo. Chi scrive, avrebbe scelto Padoin e non Evra, e privilegiato la velocità di Morata alle sportellate di Llorente: il mister ci ha azzeccato con il francese, un po’ meno con il navarro.

Per issarsi al primo posto, la Juventus avrebbe dovuto rifilare due gol di scarto alla squadra che 1) ha vinto la Liga, 2) battuto il Real due volte al Bernabeu; 2) resistito allo stesso Real, nella finale di Champions, fin quasi al 90’. Come non detto. Mi hanno commosso due cose: la rinuncia ai cambi da parte degli allenatori, zero su sei, e l’unico minuto di recupero concesso. I tre ammoniti ribadiscono quanto il rispetto abbia prevalso sul dispetto.

La Juventus ha fatto quello che poteva. L’Atletico, quello che doveva. Allegri chiude con dieci punti. Quattro in più dell’ultimo Conte. Il bilancio corretto, per ora, è questo.

Cari centimetri vi (ri)scrivo

Roberto Beccantini7 dicembre 2014

Cari centimetri vi (ri)scrivo, così mi distraggo un po’. Premesso che l’espulsione di De Rossi, per cumulo, era netta; che De Sanctis deve decidere cosa fare da grande, e di grande (se l’oratore o il portiere); e che il Sassuolo avrebbe dovuto gestire meglio il 2 a 0 e l’11 a 10, questa volta non ho visto né sentito i violini di Garcia.

Se parlo di scorte, si arrabbia il gentile Riccardo Ric. Se non ne parlo, inveisce il resto della Clinica. Vado, così, «droit au but». La scivolata di Vrsaljco sul tiro di Gervinho, con la palla che, per questione di centimetri, rimbalza prima sul corpo e poi sul braccio, mi ha ricordato lo strano caso del dottor Granqvist e del signor Lichtsteiner in una Juventus-Genoa dell’era Conte. Guida disattese il consiglio di Romeo – allora giudice di porta, oggi addetto agli arbitri dell’Inter – e non indicò il dischetto («Non se l’è sentita», avrebbe poi confessato Romeo). Irrati, invece, se l’è sentita.

Sul mani-comio, prima e dopo il dossier Maicon, sapete come la penso. La penso come Omar Sivori (se il gentile Fulvio permette, il «mio» Omar): tutti rigori. Il rugby scelse le mani, il calcio battezzò i piedi. Volontarietà e involontarietà sono concetti nobili, ma pericolosi: soprattutto, se «maneggiati» dagli italiani, usi a obbedir titolando. Per tacere del «volume» e della cianfrusglia che ci hanno tirato dietro.

Il pareggio di Ljajic era viziato da un fuorigioco di Florenzi. Ma un fuorigioco così piccolo, di così pochi centimetri da fare quasi tenerezza, ammesso che fossero centimetri e non millimetri, come giurano nella capitale. Per questo, e perché magari a Roma hanno altro cui pensare, come chiosava l’arguto Ezio, dubito che ci saranno interrogazioni parlamentari. Mi chiedono i degenti: e se in quel modo, al 2-2, fosse arrivata la Juventus? Che domande.